Riflessioni spontanee per un centenario
11/10/2016
Isabella Cosentino
In questo 11 Ottobre del 2016 cade il centenario della nascita di mio padre, lo scultore Gino Cosentino.
Focalizzando l’attenzione su questa ricorrenza ecco che allora la memoria inizia a riportare in primo piano la persona di mio padre, la mia infanzia, il nostro rapporto nel tempo.
In casa mia c’era sempre profumo di acquaragia e di colori, c’era sempre un posto dove nascevano le forme. In questo posto venivano alla luce sempre nuove forme: sulla carta, sulla tela, sul legno, oppure con la creta , col gesso, con la pietra ed erano sempre inaspettate, piene di vita: io mi divertivo e imparavo. Imparavo l’uso della fantasia, l’amore per la materia – qualunque essa fosse – la creatività, la libertà dagli schemi e dalle consuetudini.
C’erano le serate con la musica: lui suonava la chitarra e cantava canzoni siciliane o quelle di Modugno, io ne ero affascinata, non avrei mai finito di ascoltare per andare a dormire!
Quando io ero bambina mio padre era sempre allegro, ingegnoso, aveva sempre voglia di giocare e scherzare.
Mi vengono alla mente ancora le letture di poesia nel letto grande, la Domenica mattina: mia madre leggeva ad alta voce le poesie di Lorca, di Neruda e tanti altri, e noi ascoltavamo lasciandole scendere dentro nel profondo, commentandole spontaneamente: sono stati momenti davvero meravigliosi.
Oppure ricordo ancora quando con mia madre cercavamo una parola adatta, giusta, per esprimete ciò che lui aveva cominciato a cercare con volumi astratti. Alla fine concordarono che la parola “Affinità”, trovata da mia madre, era quella che riusciva meglio ad esprimere il concetto che lui voleva trasmettere con quelle armonie di forme.
Il rapporto con mia madre era sempre molto vivo, pieno. Non ho mai visto uno screzio, un litigio, una voce grossa tra loro o verso di me. Parlavano sempre fitto fitto come se le cose da dirsi non finissero mai. Mia madre lo ha sempre sostenuto col suo inesauribile entusiasmo, con la sua cultura, con la sua sensibilità all’arte, alla bellezza. Non ha mai risparmiato energie per aiutarlo, anche materialmente, per lasciarlo libero di fare il suo percorso artistico e ne condivideva appieno la ricerca.
E poi sono cresciuta, c’è stata la separazione improvvisa, inaspettata, lui se n’è andato. Ci sono stati anni difficili nei nostri rapporti, mi sono sposata e sono andata ad abitare lontano. Lo rivedevo una o due volte all’anno e ogni volta lo incontravo nel suo studio, in via Watt, e ogni volta le sculture, i quadri, crescevano, lo studio si riempiva sempre di più fin quasi a strabordare. Ogni volta mi mostrava le ultime opere spiegandomele e io mi perdevo a curiosare in ogni angolo mentre lui si perdeva coi nipoti, che negli anni erano arrivati, e che lui amava moltissimo, con cui giocava a modo suo, creativo, facendogli trovare giocattoli sempre nuovi!
E intanto arrivava la vecchiaia con i suoi acciacchi, la forza fisica calava, ma lui non ha mai smesso fino all’ultimo di far nascere forme e forme sempre nuove, trasformando la materia in Vita, in Poesia. Egli ha veramente dedicato tutto se stesso e tutta la sua esistenza all’espressione dell’Armonia della Vita, all’espressione del Fantastico, del Sogno, tramite l’uso della materia, di tutta la materia.
BUON COMPLEANNO PAPA’!!!
Gino Cosentino. Ricordo
11/10/2016
Maria Teresa (Pim) Bono
Prima immagine: un signore catanese con i capelli nerissimi e crespi, “esageratamente” gentile.
Nella foto da bambino è in piedi accanto a suo fratello, la mano appoggiata al bracciolo della poltrona, gli occhi un po’ languidi, da capretta.
Nato per caso. Gratitudine. L’avrebbe detto più tardi, ma si vedeva già dallo sguardo.
Imitava il canto degli uccellini e cantava, intonatissimo, sulla chitarra, le canzoni siciliane con un filo di voce accorata e ironica.
Era elegante. Il suo modo di portare i vestiti era trascurato ed elegante. Nella sua povertà degli inizi c’era una noncuranza, un lusso. Poi dall’eleganza sarebbe affiorata la fatica, accumulata negli anni e paziente.
La “capanna”, che si riempiva di nebbia d’inverno, era stata costruita a Milano nel 1946 nel cortile di una piccola fabbrica di tubi di rame in via Olona N. 6, messa a disposizione da un’amica d’infanzia. Lì aveva dormito sua figlia Isabella di pochi mesi. Venivano a trovarlo Aligi Sassu, con cui condivideva un piccolo forno per la ceramica, e Renato Birolli. Poi la “capanna” si era incendiata, con suo grande sollievo. Era stato il primo impatto con Milano, dopo l’università di economia e commercio voluta dal padre, il servizio militare, la guerra e l’Accademia di Belle Arti a Venezia con Arturo Martini.
Gino riferiva gli apprezzamenti positivi da parte del maestro su “quel siciliano”.
Dire di essere siciliano era alludere a una condizione imparagonabile con qualunque altra e appartenente a un mondo remoto, favoloso e scomparso
I suoi personaggi mitici, frequentati durante tutta l’infanzia, erano i “massari”, scalpellini di mestiere, analfabeti e sapienti, che vivevano nella proprietà paterna e lo aggregavano, ancora novenne, alle loro spedizioni di caccia, orgoglioso di avere un fucile e di preparare da solo le cartucce.
Suo padre era un commerciante all’ingrosso di cereali, intraprendente e fiducioso nella parola data, caratteristica, questa, che gli sarebbe costata un tracollo finanziario. Sua madre era silenziosa, distaccata, e cantava benissimo. Le ragazze non lo guardavano – non abbastanza da colmare la sua fame di ammirazione e consensi – perché, a suo dire, non era bello e non aveva successo a scuola. Ci andava con il cervello sgombro dopo una levata prima dell’alba e una camminata con l’orecchio teso a ogni foglia smossa, a ogni calpestio di zampette nell’erba. I fratelli gli avevano sottratto la sua parte della casa paterna nella divisione dell’eredità.
La Sicilia era motivo di grande amarezza e di incontenibile amore e avrebbe riempito tutto dei suoi segni: un limone splendente, solo, da una piccola tela, la poca acqua di una pozzanghera azzurra, due lucertole fra i sassi… un tavolino, da lui costruito, con due vasi di gesso ai lati per contenere i pennelli, assomigliava troppo agli asinelli siciliani con i secchi per l’acqua appesi ai fianchi.
In Sicilia gli era capitata sotto gli occhi, a tredic’anni, una riproduzione della “Tempesta” di Giorgione, il suo primo e decisivo imprinting artistico. Molto spesso, in futuro, avrebbe scolpito delle figure sullo sfondo di una scenografia di alberi, quasi a tradurre in pietra quella sensazione di isolamento, di silenzio musicale del quadro, in cui aveva intuito il suo destino. In Sicilia aveva dipinto un autoritratto intenso e pensoso, con l’aria più matura dei suoi diciotto anni.
In guerra, assegnato, grazie all’intervento paterno, al commissariato militare – e perciò con la fortuna di non dover uccidere – aveva portato i colori.
All’incendio della capanna era seguita una stanzetta in subaffitto in via Ausonio, a Milano, con i gessi sotto il letto per sottrarli alla vista della padrona di casa. Durante i fine settimana raggiungeva a Verbania la moglie Eugenia e Isabella di sei anni. Il posto in cui lavorare era un rustico, che aveva riempito di gessi enormi, in un giardino dove scolpiva la pietra. Nascevano sculture, in quel giardino, anche dall’abbattimento di alberi secolari: una madre da cui germogliavano dei bambini, un pesce spada con il piccolo e un Cristo, tozzo e ruvido, chiuso in un insondabile silenzio.
Nel piccolo appartamento che aveva poi affittato in via Binda, fatto di una sola stanza, c’erano, costruiti da lui con il meccano, un tavolo da lavoro, un armadio e quattro cavalletti per sostenere una rete metallica, rudimentali, ma esteticamente perfetti, perché anche gli oggetti più poveri e comuni dovevano rispecchiare logica e armonia. L’armadio era tappezzato con i bozzetti dei quadri astratti e ritagli di giornale sulla guerra nel Vietnam. Una foto di Louis Amstrong, Orfeo moderno con la tromba fra le labbra, fronteggiava un poster di Gramsci: due messaggeri, di Dioniso e di Apollo, messi in quel luogo a spartirsi l’affettuosa attenzione dei due abitanti. Il tavolo da lavoro serviva per i gessi e i gioielli; l’apprendistato, molto arduo, alla saldatura dell’argento e dell’oro avveniva nella piccola cucina, grazie a un mantice e a una bombola di gas. Alle pareti erano appesi quadri-scultura e intorno lo spazio era condiviso dalle tele appena realizzate e da oggetti inutili, dovuti a una passione per la manualità nata durante l’infanzia lungo le strade in discesa di Pietra dell’Ova, il suo quartiere a Catania, su cui buttarsi a rompicollo a bordo dei carrettini costruiti con le sue mani.
Nella stanzetta di via Binda venivano i primi amici per sempre: Marisa, Piero, il caro e grande Silvio, Cinzia…
Diceva di avere sofferto in passato. Quanto al presente, preferiva esibire sicurezza e allegria. Esibirsi era una sua inclinazione innata e un suo gioco, il gioco di fare di sé un personaggio un po’ favoloso, che aveva da comunicare cose importanti. Era cameratesco, fraterno con tutti. “Basta che respirino”, diceva. Aveva la timida gentilezza di un ragazzino, ma era orgoglioso e incline a soluzioni drastiche e definitive. I sentimenti erano mostrati e nascosti, mostrati per nasconderli meglio. Era organizzato, metodico in modo quasi maniacale, ma diceva di vivere di entusiasmo. La sperimentazione di ogni nuova tecnica era preceduta dall’ebrezza di una scoperta. Era un apprendista appassionato, che dal caso faceva scaturire la scintilla di inizio di una ricerca paziente. La vecchiaia era una malattia che non avrebbe mai preso.
I modi di dipingere, fino alla metà degli anni settanta, comprendevano, oltre ai quadri-scultura e ai quadri con parti in gesso, alcune varianti della “pop art”, con l’inserimento di oggetti, poesie o piccoli pezzi di tela dipinta. C’era poi la tecnica “a strappo”, consistente nell’incollare una piccola sagoma di tela su una lamiera di ferro o di rame, mantenendola umida per farla ossidare e inserendola poi nel quadro.
A Verbania Intra Gino aveva scolpito a mano, senza compressore, delle sculture astratte di un solo pezzo che mio fratello Cris e io aiutavamo a rendere lucide in alcune parti. A Cris devo la prima comprensione di quelle sculture, le appassionate discussioni e le analisi. Sarebbe stato vicino a Gino per tutta la vita con il suo acume critico, i suoi progetti per le mostre, la sua disapprovazione (a volte) e il suo grande cuore.
Si respirava un’atmosfera di continua novità e quella novità contagiava la realtà intera.
Il periodo astratto è venuto dopo il periodo “martiniano” delle opere nella “capanna”, di cui alcune perse nell’incendio e alcune distrutte di proposito. Quel periodo è testimoniato da un catalogo, introdotto da un testo profondo e limpido della moglie.
Sempre a Verbania aveva scolpito una “Via Crucis” (adesso parte del complesso della “chiesa di vetro” a Baranzate di Angelo Mangiarotti e Bruno Morassutti) nel piccolo cortile di un marmista, aggredendo il serpentino, direttamente con il martello pneumatico e ispirandosi a piccole immagini sacre per i temi delle stazioni. Le figure – soltanto i volti chiusi, intensi, inespressivi, le spalle, le mani – nascevano quasi miracolosamente, senza ripensamenti. Quando mio fratello e io andavamo a trovarlo, si interrompeva, ci spiegava ogni passaggio ed era attento alle nostre impressioni.
Lo studio di via Watt N.5 a Milano si apriva nel 1970. Con l’aiuto di Cris, Alberto e Marcello, era stato “controsofittato” con pannelli di polistirolo, dipinto a calce e munito, a opera di Alberto, di un elaboratissimo e del tutto fuori norma impianto elettrico.
Gino avrebbe sempre creduto in loro, e in Giovanni, Giorgio F., Adele, Mario, Ornella, Elisabetta…, negli anni miracolosi della loro giovinezza e anche dopo. Poi sarebbero venuti altri giovani: Francesco, Giorgio, Giovanni B., Marco, Matteo, Luca e ciascuno di loro avrebbe dato a Gino qualcosa dei suoi anni miracolosi.
Sempre nel 1970, Alberto, Chiara e Marcello avevano firmato l’introduzione al catalogo di una sua mostra alla galleria Blu.
A Bergamo, per l’architetto Sergio Invernizzi, era in opera la produzione di pannelli decorativi per l’edilizia, realizzati insieme al muro portante.
A Verbania erano nate le “affinità” astratte, che esprimevano un’idea di amore senza comunicatività con il mondo umano, eppure con già la carnale tenerezza dei successivi “abbracci”, “ maternità” e “ imbeccate”. Due di queste “affinità” occupavano una piccola parte del grande spazio vuoto dello studio, insieme alle prime macchine: una saldatrice antidiluviana, una piccola gru… poi sarebbero arrivati una toupie, una sega circolare e una a ruota dentata, un compressore, un aspiratore, una smerigliatrice, un traforo, un episcopio, una macchina per la litografia, due forni per la ceramica… Da sempre la ceramica e la terracotta avevano accompagnato gli altri esperimenti con i diversi materiali: da un primo raffinato posacenere realizzato insieme a Birolli, a una – fra le ultime cose modellate – “maschera del pianto”, distrutta in fase di lavorazione senza motivo.
Di ceramica erano anche i “percorsi” per contenere i fiori, presenti in tutte le forme: freschi, secchi, finti, di carta, insieme alle “coltivazioni” di orchidee, di papiri e a un melo, oggetto di apprensiva cura.
Per tutti gli anni ‘70 e fino alla metà degli anni ‘80 i suoi quadri erano dipinti con la “tempera ad uovo”: una maionese fatta con l’olio di lino con cui mescolare i colori. Ogni colore, poi, era steso su una base del suo colore complementare. Questa procedura tradizionale era seguita devotamente perché, diceva, “La tecnica diventa poesia”.
L’olio di lino doveva essere cotto al sole. Un amico architetto, Gianni Fragapane, aveva prestato a questo scopo il tetto della sua casa di campagna, oltre che la sua preziosa competenza per allestire la mostra alla “Rotonda Besana” del 1976 a Milano e per progettare molte iniziative fino agli inizi degli anni ‘90: un percorso di sculture nella città proposto dal comune di Milano, una mostra collettiva alla “Permanente” e tutti i concorsi. Più giovane, anche lui siciliano, Gianni condivideva la stessa visione della vita, vissuta con altrettanto coraggio, passione e rigore.
Alcuni progetti erano andati in porto: la fontana per l’autodromo di Monza, la grande scultura, ”Germinazione”, davanti alla scuola media di via degli Appennini a Milano, le tre “Affinità” poste stabilmente in zona Brera e nel giardino della Rotonda Besana e il monumento ai Caduti a Lodivecchio. Più tardi, Giorgio F. avrebbe fatto acquisire due grandi sculture alla Facoltà di Ingegneria alla Bovisa (Milano). I rapporti con le gallerie, invece, non erano sempre facili. C’era, in questo, il rifiuto di ogni mediazione, ma il sentimento era di essere inspiegabilmente escluso.
Quasi contemporaneamente alle tempere, venivano realizzati i bozzetti dei quadri astratti, in cui due colori acrilici erano stesi su fondo bianco in larghe campiture con i contorni netti. L’idea veniva da un amico pittore, Donald Mills e il mondo era quello, rivisitato, delle sculture astratte.
Una delle sensazioni più indefinibili e più forti che si avvertiva entrando nello studio era una sensazione di odori: l‘odore di legna, di limatura di ferro, di mastici per la pietra, di oli, di essenza di trementina, di colla, di gesso, di inchiostri per la litografia e, d’inverno, quello delle bucce di mandarino messe a seccare sulla stufa. Un posto isolato, “per pensare”, era un piccolo soppalco. Seminascosto da una grande scultura in legno vuota, vi si accedeva da una scala a pioli. Lungo il davanzale di una finestrella che dava sui tetti vi era un pannello con scolpite delle lucertole, parenti di quelle che durante la sua infanzia in Sicilia Gino prendeva al laccio con un filo d’erba e faceva “nuotare” negli stagni.
C’erano anche degli strumenti musicali: un organo elettrico, un trombone, un mandolino, due chitarre e un tamburo africano. Fra gli amici uno solo, Giorgio M., sapeva suonare l’organo e quando compariva per caso, scusandosi, si diffondeva l’incanto della sua musica.
Sui tavoli da lavoro attività di periodi successivi si stratificavano: seminascosta dalla nuova c’era la precedente, pronta per essere ripresa in una catena ininterrotta di possibilità, di compimenti e di trasformazioni. Quella vita fatta di gesso, di legno, di pietra, di terracotta, di ceramica, di ferro, di vetro, di carta era un’altra forma di vita. Ogni tanto avveniva uno scivolamento dalla scultura al gioco. Nascevano così l’uccello di cartapesta, appollaiato in cima a una girandola che girava per effetto dello spostamento d’aria che creavano, dal basso, delle candele accese, la madre con il piccolo fatti di gusci d’uovo sullo sfondo di una foresta di carta, o i nuovi “gioielli poveri”, realizzati con pezzi di oggetti trovati, sfolgoranti di preziosità barbarica.
A un certo punto della sua vita, negli anni ‘80 del secolo scorso, le sculture astratte ridiventavano figurative: si trattava quasi sempre delle stesse trasformate, e quindi distrutte nella loro essenza. Distruggere era in lui il contrappeso del creare, come l’essere oscuro era il contrappeso della sua bontà. Di astratto erano rimasti i gessi, le forme pure, risultato di decine e decine di rifacimenti e di prove.
Nella pietra, un elemento dell’”affinità” poteva diventare una testa di pecora o di istrice, un altro dei rami fioriti. Accanto agli animali delle frequentazioni infantili facevano la loro comparsa gli animali simbolici: serpenti, delfini, tartarughe, leoni e la sirena, essere ancipite. A volte, anche nella morfologia umana si coglieva una tendenza verso una metamorfosi, qualcosa di non meglio definito. L’erotismo era il nucleo, il fuoco segreto della vita, rappresentato negli atti fondamentali della sessualità, della nascita, della maternità e del nutrimento; la morte, che lo rende più vero, era rappresentata religiosamente nelle Crocifissioni e nelle Pietà, oppure come necessità naturale nell’uccisione delle prede, o, infine, come un irrompere della fatalità nella vita umana. In una grande scultura in legno una persona che presta soccorso alla vittima di un incidente era raffigurata. come una Pietà, in base alla la stessa logica – desacralizzare il sacro, sacralizzare il comune – per cui il Cristo della “Via Crucis” era “soltanto” un uomo.
Alla fine degli anni novanta una tecnica appresa da un’allieva – dipingere su un letto fresco di colore a olio bianco con dei pimenti sciolti nell’alcol — aveva dato vita a tutta una nuova produzione di quadri.
Il tempo dedicato al lavoro era sempre fecondo e senza sprechi. Gino comunicava questa sensazione anche a chi andava da lui, essendo certo di essere capito e incoraggiato. La comprensione nasceva sulla base del comune amore per l’arte, ma vi si aggiungeva qualcosa di più intimo, mediato dalla sua giocosità infantile, travestimento dimesso di quel misto che era nel suo carattere di fatalismo, sfida, coraggio, incoscienza. A tutti consigliava l’incoscienza. “Io sono stato incosciente, buttati!”, diceva. Il rapporto con gli allievi era gratuito e di scambio. C’era chi affrontava un viaggio per venire a offrire la sua bravura e la sua meravigliosa simpatia (Gigia), chi, non osando esprimersi per sé, offriva il suo aiuto, restando a “cartavetrare” i gessi, da sola, nelle lunghe sere, nello studio (Fabrizia), chi, negli ultimi anni, risvegliava in lui la gioia degli inizi e il senso della vita che continuava – come se non dovesse finire mai – e avrebbe continuato a farlo vivere anche dopo, con le sue iniziative e il suo affetto (Paola con Alessandro) e chi, ancora giovanissimo, sempre negli ultimi anni, quasi lo prendeva per mano, trascinandolo per i sentieri immaginosi e improbabili delle sue “invenzioni” (Matteo).
Quando gli studenti delle scuole medie venivano nello studio portati da Giampi, suo collaboratore e amico, Gino illustrava ogni scultura, invitando a toccarla, con lo stesso fervore pedagogico che aveva catturato noi ragazzi. I quadri erano troppo numerosi per prestarsi a questa modalità conoscitiva o, forse, bisognava proprio affidare ad essi la narrazione. Ogni immagine era un’evocazione, l’impronta nitida di un sogno.
Gino faceva risalire le ragioni della sua pittura e della sua scultura alla natura, visione e armonia di forze che si attraggono e si trasformano e, anche se addomesticata, sempre misteriosa: una festa a volte terribile, un caos armonioso da cui estrarre tutti i saperi. Nei suoi quadri, proprio nei particolari messi in più lucente evidenza, la natura era ancora quella assorbita negli anni lontani in Sicilia: intima e sibillina.
Diceva di essere “sul ramo”, alludendo a una vita non sicura, una condizione di libertà che dava un senso di leggerezza e di angoscia.
Il suo doppio naturale era i colibrì, l’uccellino solo che succhia i fiori e si mantiene fermo nell’aria sbattendo velocissimamente le ali.
Il suo “sbattere le ali” era il lavoro. Lavorava sempre e, quando non lavorava, viveva come in sogno, cercando di captare i messaggi dall’esterno. Tutto era messaggio, anche l’esperienza più trita e banale. Era razionale fino in fondo per sua natura e irrazionale fino in fondo per una sua grazia speciale che gli faceva cogliere l’essenziale, sempre.
Si conquistava la vita palmo a palmo. Da vecchio diceva dei ragazzi: “Non Li invidio, che fatica devono fare!” Però diceva anche: “Pensa che fortuna essere nato!”